Amare sè stessi e psicoterapia

Amare sè stessi e psicoterapia
La fatica ed il dolore in terapia.

In terapia la speranza e la motivazione vengono spesso messe a dura prova. Forse come in ogni cambiamento.
Occorre, allora avere pazienza e fiducia. Come terapeuta spesso sento l'urgenza delle richieste di benessere implicite ed esplicite dei miei clienti. richieste perentorie: "voglio stare bene oggi. Non voglio più aspettare".

La funzione di contenimento riguarda anche il tempo. L'imparare a darsi il tempo, il proprio tempo interiore alla scoperta di sè stessi.
Compito non facile, siamo abituati a ricolvere i problemi in tempo veloce ed utile al ritorno alla vita normale ed al suo scorrere veloce. Allora non si tollera il tempo e la fatica.
La fatica, ma la voglia di essere se stessi senza perdere la speranza. La speranza che porta la buona novella, il sorriso sofferto sul volto come un dono per gli altri. Non importa cospargersi il capo di cenere perchè si soffre, si può gioire seppur con colori meno vividi, a colori pastello.
Sto imparando a conoscere la dignità. Una dignità che è fatta di rispetto per il dolore. Il rispetto del dolore è fatto di un sorriso faticosamente conquistato. Il rispetto del dolore porta all'altruismo, una testimonianza umana del “potercela fare”.

E' bello quando con la voce della sofferenza si riesce a trasmettere messaggi di speranza. Non la speranza manzoniana che cade dal cielo, ma la speranza dell’empawerment. Una speranza si fa desiderio nel senso etimologico della parola il desiderare la buona stella. Il guaritore ferito. E’ necessaria la discesa negli “inferi” senza Virgilio, ma in compagnia di se stessi. Compagnia a volte non molto piacevole.
Tutto questo per non correre più il rischio che ogni incontro diventi uguale a tutti gli incontri della vita solo perché ciò che si cerca non è l’altro, ma una possibile immagine di se stessi. In terapia è importante ricercare l’amore: amicale, amoroso, filiale. L’individualità dell’amore, perché per amare ed essere amati occorre conoscersi come separati dall’altro.
L’amore non è solo un sentimento, è una capacità. Anche se sopratutto per fare i terapeuti occorre amore, soprattutto di se stessi, per non chiedere di essere amati dai propri clienti.

Voglio riportare una riflessione di Galimberti, non per piacere di conoscenza, ma perché riesce a rendere in poche righe quello che cerco di spiegare. Parlando dell’evoluzione dell’amore nelle diverse epoche scrive che l‘amore: “Da un lato è diventato l’unico spazio in cui l’individuo può esprimere davvero se stesso, al di fuori dei ruoli che è costretto ad assumere in una società tecnicamente organizzata, dall’altro lato questo spazio, essendo l’unico in cui l’Io può dispiegare se stesso e giocarsi la sua libertà fuori da qualsiasi regola e ordinamento precostituito, è diventato il luogo della radicalizzazione dell’individualismo, dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io, e nella relazione non tanto il rapporto con l’altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio sé profondo, che non trova più espressione in una società tecnicamente organizzata, che declina l’identità di ciascuno di noi nella sua idoneità e funzionalità al sistema di appartenza”.
"Per effetto di questa strana combinazione, nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione come mai lo era stato prima, e al tempo stesso impossibile perché, nella relazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma, attraverso l’altro, la realizzazione di sé”. L’amore è toccare con mano i limiti dell’uomo senza spavento".

Certo, più si scalano le montagne più pericolosi diventano i precipizi. Ma senza la prossimità dei precipizi, delle altezze che si è voluto raggiungere non c’è brivido.

Concludo credendo che la terapia alla fine è il processo che promuove la ricerca di un luogo dentro di sè come era Tiffany per Holly Golightly un luogo cioè che ci permetta di esclamare come lei: “La malinconia viene perchè si diventa grassi, o perchè piove da troppo tempo. Si è tristi, ecco tutto. Ma le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente ma non si sa di che cosa si ha paura. Si sa che sta per capitarci qualcosa di brutto, ma non si sa che cosa. Avete mai provato niente di simile?"

"Abbastanza spesso. C'è chi lo chiama Angst."

"Benissimo. Angst. Ma che cosa fate, voi, in questi casi?"

"Bè, un bicchierino aiuta."

"Ci ho provato. Ho provato anche l'aspirina. Secondo Rusty, dovrei fumare marijuana, e l'ho fumata per un pò, ma mi fa soltanto ridacchiare. Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. E' una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell'aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d'argento e di portafogli di coccodrillo. Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime sensazioni di Tiffany, allora comprerei un pò di mobili e darei un nome al gatto..." (tratto da: "Colazione da Tiffany").

La sofferenza in sè non ha alcun fascino, tranne che per i masochisti; ma è un fatto che la corsa al benessere puro e semplice, fine a se stessa, dovunque porti non porterà lontano.
Quel benessere rappresenta spesso la korte dell'anima, mentre la sofferenza che accompagna un cammino di ricerca, può essere fecondante per la propria individuazione (Aldo Carotenuto "I sotteranei dell'anima" - 1993).

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